Il turismo balneare è in crisi strutturale. E dobbiamo iniziare ad ammetterlo

Prompt generativo: A nostalgic Italian beach scene from the 1980s, featuring a vintage swing, placed directly in the shallow sea water. One swing is empty, the other slowly moving. The beach is nearly deserted, with only one woman in retro summer clothes staring at the horizon. The atmosphere is melancholic and surreal, evoking the decline of traditional beach tourism. Warm, washed-out colors, analog film aesthetic, strong composition with horizon line and branded objects. Inspired by Luigi Ghirri and Martin Parr.

 

Leggere l’intervento di Martina Manescalchi sul suo blog (qui il link diretto: La crisi del balneare, le destinazioni pigre, le pance ancora piene) è stato come ascoltare a voce alta qualcosa che già aleggiava da tempo nei pensieri di molti. Martina ha avuto la chiarezza e il coraggio di esprimere, con grande lucidità, ciò che in tanti continuiamo a rimandare: il turismo balneare italiano così come lo conosciamo è in crisi. Ma non una crisi passeggera. Una crisi strutturale.

Oggi la situazione nel nostro cluster di Hotel balneari è chiara: la flessione si aggira intorno al 10%. Se sei stato bravo a prevedere la strategia tariffaria, hai comunque raggiunto un buon risultato, aumentando le presenze anche se è diminuita la lunghezza media del soggiorno. Nel mese di agosto, per esempio, abbiamo un pick-up di soli 6 giorni. In soldoni? Se lo scorso anno hai raggiunto un determinato fatturato con 17.000 presenze, oggi devi essere capace di generare almeno 20.000 presenze per ottenere lo stesso risultato. Ma attenzione: non ad agosto, bensì distribuendo questo incremento nei mesi di giugno, luglio e settembre.

Come consulente, ho già provato ad affrontare il tema da diverse angolazioni: l’ho fatto parlando di overtourism e consumo del territorio (qui l’articolo), l’ho fatto analizzando la fragilità dei modelli turistici stagionali in montagna (qui) e più recentemente attraverso una riflessione sulla transizione dal turismo del “FOMO” al turismo del “JOMO” (qui).

Ciò che accomuna queste letture è l’urgenza di un cambio di paradigma. E l’articolo di Martina ha il merito di dirlo senza cercare scuse: “Non è solo un problema congiunturale… Il punto è che il turismo balneare, così come lo abbiamo sempre concepito, è in crisi strutturale. E continuiamo a far finta di niente.”

Ecco, è questo il nodo centrale. E non riguarda solo la costa, ma l’intero sistema turistico italiano.

È accaduto lo scorso anno in montagna, dove l’inverno senza neve ha messo a nudo la vulnerabilità di modelli troppo legati alla monocultura sciistica. Sta accadendo ora nelle grandi città d’arte (Venezia in primis), dove il turismo mordi-e-fuggi produce numeri senza valore reale per il territorio. E ora lo vediamo anche lungo le nostre coste: soggiorni sempre più brevi, pressioni tariffarie al ribasso, revenue improvvisato, e un’idea di vacanza che non basta più.

No, non è colpa del cambiamento climatico. Non è nemmeno solo una questione geopolitica o economica. È una crisi di visione.

Serve un ripensamento radicale del prodotto, della narrazione e del posizionamento delle destinazioni. Ma questo ripensamento non può arrivare solo dalla politica o dagli imprenditori: deve partire anche da noi, consulenti, formatori, esperti di marketing e revenue. Siamo parte del sistema. E dobbiamo assumerci la responsabilità di aiutare le strutture e i territori a vedere oltre l’estate, oltre l’occupazione, oltre il last minute.

Non si tratta solo di aggiustare il tiro con un po’ di storytelling o con un’offerta “esperienziale” di facciata. Serve progettualità. Serve osare. Serve ammettere che “stessa spiaggia, stesso mare” non è più una promessa, ma un limite.

Come scrive Martina, il problema “non è il mare, è l’alibi.” E allora basta alibi.
È tempo di rimettere mano al modello. Insieme. Strutturalmente.

 

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