
Leggere l’intervento di Martina Manescalchi sul suo blog (qui il link diretto: La crisi del balneare, le destinazioni pigre, le pance ancora piene) è stato come ascoltare a voce alta qualcosa che già aleggiava da tempo nei pensieri di molti. Martina ha avuto la chiarezza e il coraggio di esprimere, con grande lucidità, ciò che in tanti continuiamo a rimandare: il turismo balneare italiano così come lo conosciamo è in crisi. Ma non una crisi passeggera. Una crisi strutturale.
Oggi la situazione nel nostro cluster di Hotel balneari è chiara: la flessione si aggira intorno al 10%. Se sei stato bravo a prevedere la strategia tariffaria, hai comunque raggiunto un buon risultato, aumentando le presenze anche se è diminuita la lunghezza media del soggiorno. Nel mese di agosto, per esempio, abbiamo un pick-up di soli 6 giorni. In soldoni? Se lo scorso anno hai raggiunto un determinato fatturato con 17.000 presenze, oggi devi essere capace di generare almeno 20.000 presenze per ottenere lo stesso risultato. Ma attenzione: non ad agosto, bensì distribuendo questo incremento nei mesi di giugno, luglio e settembre.
Come consulente, ho già provato ad affrontare il tema da diverse angolazioni: l’ho fatto parlando di overtourism e consumo del territorio (qui l’articolo), l’ho fatto analizzando la fragilità dei modelli turistici stagionali in montagna (qui) e più recentemente attraverso una riflessione sulla transizione dal turismo del “FOMO” al turismo del “JOMO” (qui).
Ciò che accomuna queste letture è l’urgenza di un cambio di paradigma. E l’articolo di Martina ha il merito di dirlo senza cercare scuse: “Non è solo un problema congiunturale… Il punto è che il turismo balneare, così come lo abbiamo sempre concepito, è in crisi strutturale. E continuiamo a far finta di niente.”
Ecco, è questo il nodo centrale. E non riguarda solo la costa, ma l’intero sistema turistico italiano.
È accaduto lo scorso anno in montagna, dove l’inverno senza neve ha messo a nudo la vulnerabilità di modelli troppo legati alla monocultura sciistica. Sta accadendo ora nelle grandi città d’arte (Venezia in primis), dove il turismo mordi-e-fuggi produce numeri senza valore reale per il territorio. E ora lo vediamo anche lungo le nostre coste: soggiorni sempre più brevi, pressioni tariffarie al ribasso, revenue improvvisato, e un’idea di vacanza che non basta più.
No, non è colpa del cambiamento climatico. Non è nemmeno solo una questione geopolitica o economica. È una crisi di visione.
Serve un ripensamento radicale del prodotto, della narrazione e del posizionamento delle destinazioni. Ma questo ripensamento non può arrivare solo dalla politica o dagli imprenditori: deve partire anche da noi, consulenti, formatori, esperti di marketing e revenue. Siamo parte del sistema. E dobbiamo assumerci la responsabilità di aiutare le strutture e i territori a vedere oltre l’estate, oltre l’occupazione, oltre il last minute.
Non si tratta solo di aggiustare il tiro con un po’ di storytelling o con un’offerta “esperienziale” di facciata. Serve progettualità. Serve osare. Serve ammettere che “stessa spiaggia, stesso mare” non è più una promessa, ma un limite.
Come scrive Martina, il problema “non è il mare, è l’alibi.” E allora basta alibi.
È tempo di rimettere mano al modello. Insieme. Strutturalmente.